L'Editoriale
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La lezione di Liliana

Talvolta pare che la storia si prenda gioco di noi. E vedere la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al lager, presiedere la seduta inaugurale del Senato per l’elezione del suo presidente - espressione di una nascente XIX legislatura vinta da una destra tornata prima forza della nazione dopo il ventennio fascista - è stato un vero cortocircuito. L’ha sentita la Segre stessa quella “vertigine”

Parole chiave: Fascismo (3), Segre (3), Senato (4)
La lezione di Liliana

Talvolta pare che la storia si prenda gioco di noi. E vedere la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al lager, presiedere la seduta inaugurale del Senato per l’elezione del suo presidente - espressione di una nascente XIX legislatura vinta da una destra tornata prima forza della nazione dopo il ventennio fascista - è stato un vero cortocircuito. L’ha sentita la Segre stessa quella “vertigine”: per uno strano destino e a pochi giorni dal centenario della marcia su Roma, che “diede inizio alla dittatura fascista”, è toccato a lei il ruolo di presidente pro tempore di una delle due camere, luogo del dibattito democratico, espressione di quella democrazia tenuta in gran poco conto da Mussolini, se è vero che disse: “La guerra ha liquidato tra fiumi di sangue il secolo democratico del numero, della maggioranza e della quantità” (Ezio Mauro, L’anno del fascismo, Feltrinelli ed.)

L’alto valore del discorso della Segre è stato riconosciuto subito dal neo eletto Ignazio La Russa, un passato nel Movimento sociale italiano e un presente in Fratelli d’Italia, che l’ha investita del ruolo di “presidente morale” del Senato. La senatrice a vita ha dimostrato tutta la sua capacità di parlare schietto ma senza puntare il dito, di difendere i valori che fanno grande una nazione e il suo popolo ma senza crocifiggere chi diversamente si comporta, di saper indicare la via da seguire affinché - per logica opposizione - risulti palese la distanza di come siamo da quello che potremo e dovremo essere.

Dall’alto scranno che le è toccato in sorte occupare per una sola volta non ha rivendicato tutte le volte in cui, da bambina fino ai capelli bianchi di oggi, è stata fatta oggetto di scherno: dalle subìte leggi razziali ai più moderni attacchi d’odio. Senza scordare un passato troppo grave per essere cancellato ha preferito concentrarsi su come le sue parole avrebbero potute essere di stimolo e d’aiuto, illuminata dall’esperienza della sua vita lunga e sopravvissuta.

Ha deciso di parlare a difesa della Costituzione e di spronare all’unità Patria di fronte a tre date chiave (25 aprile, 1° maggio, 2 giugno), date madri di quella libertà che oggi tutti possiamo godere grazie ai “centomila morti caduti nella lunga lotta” (così si è espressa citando Calamandrei). Da vittima della guerra, non è mancato l’appello ad una pace “urgente e necessaria”, secondo il recente monito del Presidente della Repubblica Mattarella; una pace che deve passare per “il perseguimento della verità, del diritto internazionale e della libertà del popolo ucraino”. Ha ricordato la nuova veste di un Senato, snellito nel numero dei senatori al fine di far sentire ciascuno di essi più responsabile nel compiere “con disciplina e onore” il proprio dovere ma anche nel lasciare fuori dall’aula “la politica urlata che tanto ha fatto crescere la disaffezione al voto”. E lì, dove non sono mancate scene poco consone alle istituzioni, ha fatto risuonare parole fuorimoda come “gentilezza e mitezza”, che solo i grandi riescono ad incarnare. Liliana lo ha fatto.

Lei, una donna di 92 anni calpestata dalla storia degli uomini. Lei che, ragazzina, non poteva venire più umiliata e ferita: bandita da scuola, portata via da casa, strappata al padre, rinchiusa ad Auschwitz, ridotta allo “stuck” n.75190 come ogni giorno le ricorda il tatuaggio sul braccio, affamata e lacera fino al punto da non riconoscersi più.

Eppure se tanta brutalità subìta non si è incarnata in lei è perché quella stessa ragazzina ha saputo opporvisi. Nel maggio del ’45, a liberazione in corso, aveva dimostrato tutta la sua grandezza: trovandosi infatti di fronte a uno dei suoi aguzzini decise non di colpirlo ma di lasciarlo andare per “non essere come lui”. Aveva già deciso “di essere un’altra cosa”. La lezione di Liliana è partita da lì.

Con questo stesso spirito ha parlato giovedì 13 ottobre: mostrandosi nella nobiltà dei sentimenti ad un’aula già attraversata da umani rancori e asti divisivi, agitata nella ricerca di una quadra, in cui i volti mal celavano tensioni che le mani, votando, hanno poi espresso. In mezzo a una politica che da tempo appare come una matassa senza più bandolo, la senatrice a vita, rivestita di rara signorilità, ha dato prova di un pensiero franco e adamantino che tutti hanno applaudito.

Pertiene alla Segre la capacità di dire le cose come stanno. Nel volume “La memoria rende liberi” - nato dal dialogo con Enrico Mentana (Bur editore) – ha dichiarato che “ai sopravvissuti è affidato il dovere di difendere la verità”. Lo ha fatto ancora una volta, decidendo di parlare all’uomo come dovrebbe essere, non all’uomo com’è. Con la sua sussurrata fermezza, sagace ma volutamente non scaltra, esperta fin da bambina dei pugnali di falsità che certe ideologie nascondono dietro i proclami, ha dimostrato di aver imparato la lezione alla scuola del lager: crudeltà, brutalità e indifferenza esistono e, là dove si manifestano, l’abominio prevale sull’uomo e sulla sua umanità che, sola, resta l’espressione migliore di sé che ciascuno di noi può dare.

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