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L’Occidente renda conveniente a Pechino smarcarsi dalla Russia

Neutralità dell’Ucraina da definire, ma è il punto di partenza per la pace

L’Occidente renda conveniente a Pechino smarcarsi dalla Russia

Guardando al “bicchiere mezzo pieno”, si può sostenere che i colloqui di Istanbul hanno stabilito almeno un punto fermo: la rinuncia ucraina a entrare nella Nato, accettandosi neutrale. Ma l’assenza di precisi contenuti circa lo status lascia pensare a un compromesso sospensivo, di natura più che pre-negoziale. Si è parlato della neutralità “perpetua” del tipo costituzionalizzato dall’Austria nel 1955 per liberarsi dagli occupanti sovietici e angloamericani, rinunciando a schierarsi tra i due blocchi bipolari e, più in generale, a non coinvolgersi in alleanze militari e a non ospitare basi straniere. L’alternativa sarebbe la neutralità “convenzionale”, non costituzionalizzata, del tipo adottato dalla Svezia a partire dal 1834, parzialmente derogata con le facilitazioni logistiche alla truppe tedesche nel 1941 e poi ribadita a conclusione del conflitto mondiale. In entrambi i casi, la neutralità non ha impedito l’adesione alla Ue, la partecipazione a missioni di peacekeeping e le collaborazioni in partenariato con la Nato.
Resta il nodo della compatibilità tra i due modelli – che comunque contemplano l’esistenza di forze armate nazionali – e l’obiettivo russo, dichiarato alla vigilia dell’invasione, di smilitarizzare Kiev: la formula sembrerebbe prossima piuttosto a quella dettata dagli Usa per l’art. 9 della costituzione giapponese del 1947. Non dissimile il discorso se si tratta di prestabilire limiti prefissati alle dotazioni militari. Anche in questo caso, si comprende il rilancio ucraino per la specialità di una soluzione in termini di garanzie di fattiva difesa prestate da Stati terzi. D’altra parte, pur non implicando l’automatismo dell’art. 5 del Trattato Nato (immediata reazione militare in soccorso di un alleato), a seconda dei garanti, ciò potrebbe precostituire rinnovate recriminazioni russe rispetto all’atlantizzazione surrettizia del Paese.
A ogni buon conto, è la guerra sul campo che volge a determinare il tipo di neutralità che dovrà stabilirsi. Le notizie degli ultimi giorni descrivono la concentrazione delle forze russe sul Donbass e la fascia costiera. I nuovi attacchi a Odessa, il bersagliamento di infrastrutture critiche (raffinerie e impianti di stoccaggio, ponti e snodi ferroviari), l’apertura di più punti d’attacco sulla linea del fronte, il movimento a tenaglia da nord a est, sono elementi che chiariscono la volontà di raggiungere una condizione di preminenza con cui chiudere la partita, imponendo lo stato di fatto territoriale o usando gli ulteriori avanzamenti come merce di scambio per vincere i dinieghi ucraini. Specularmente, anche l’intermittenza tra rigidità e possibilismo di Zelensky sembrerebbe ispirata dalle difficoltà russe, di cui si spera di approfittare per modificarne al ribasso le posizioni negoziali, in attesa di altre armi e dell’inasprimento delle sanzioni.
Su un piano del tutto differente, un altro attore è alle prese con questioni di neutralità. Nel suo caso, però, non subita, bensì rivendicata. Nel vertice del 1 aprile, von der Leyen e Michel sono tornati a chiedere al governo cinese una scelta di campo, ossia di sottrarsi al ruolo di salvagente della Russia per costringerla a desistere. Sebbene i termini impiegati siano stati “mediazione” e “persuasione”, è chiaro il tipo di leva che si vuole dalla Cina, al punto di definirne l’equidistanza una complice interferenza nell’azione occidentale. Sul piatto, assieme alla reputazione internazionale di Pechino, i leader europei hanno posto il confronto tra il volume dei suoi traffici con Ue e Usa, superiore di 9 volte a quelli con Mosca. Oltre al bastone, la carota: lo sblocco della ratifica di Strasburgo all’Accordo globale sugli Investimenti (Cai) e la rassicurazione di considerare Taiwan un partner economico e non anche un soggetto politico sovrano.
Dietro le apparenze dello scambio, dunque, continua a modularsi la logica del “con noi o contro di noi” già sottoposta senza contropartite da Biden a Xi Jinping.
La Cina non tollera di essere messa sotto pressione e, per farlo intendere, ha risposto con la medesima moneta, ribadendo la formula dell’“amicizia senza limiti” con la Russia. La cui estensione dipenderebbe dall’Occidente: il messaggio cifrato è stato inoltrato il 30 marzo, nell’incontro tra Lavrov e Wang Yi a margine della conferenza di Tunxi.
Su questi presupposti Pechino mostra che, se gli Usa (non certo la Ue) non hanno di meglio da offrire, non può certo contribuire né per una Russia in ginocchio né per la destituzione di Putin, prestandosi a una mediazione “schierata” del tipo concepito oggi a Occidente. L’ambivalente e conservativa neutralità, accreditata dal mancato riconoscimento dell’annessione della Crimea, può consentire l’attesa di sviluppi che interpellino il Gigante in modo più remunerativo, ovvero, che lo spingano a smarcarsi dal Cremlino paventando perdite non più compensabili.

Fonte: Sir
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