L'Editoriale
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Se un like vale una vita

Costernati e increduli di fronte a vite spinte ad ogni eccesso pur di avere un like. Che altro si può provare davanti alla notizia di ragazzi appena ventenni che, su una Lamborghini noleggiata allo scopo, ingaggiano una folle corsa per auto-riprendersi col cellulare e vincere la sfida con se stessi e con i followers alla ricerca di un premio in “mi piace” e in un non quantificato gruzzolo? Che dire se, nella loro corsa, distratta e alterata pure dalla cocaina, finiscono addosso ad una utilitaria, centrandola, mandandola fuori strada e provocando la morte di un bambino di cinque anni e il ferimento di mamma e sorellina?

Parole chiave: Youtuber (1), Lamboghini (1), Vittima (2), Incidente (2), Social (10), Video (6)
Se un like vale una vita

Costernati e increduli di fronte a vite spinte ad ogni eccesso pur di avere un like. Che altro si può provare davanti alla notizia di ragazzi appena ventenni che, su una Lamborghini noleggiata allo scopo, ingaggiano una folle corsa per auto-riprendersi col cellulare e vincere la sfida con se stessi e con i followers alla ricerca di un premio in “mi piace” e in un non quantificato gruzzolo? Che dire se, nella loro corsa, distratta e alterata pure dalla cocaina, finiscono addosso ad una utilitaria, centrandola, mandandola fuori strada e provocando la morte di un bambino di cinque anni e il ferimento di mamma e sorellina? Che dire se tutto questo avviene per le strade del centro a Roma e non in deserte periferie?

Viene da ammetterlo: il sistema non tiene, il sistema ha fallito e i perdenti sono gli adulti, siamo noi.

Viene da dire: alla faccia del virtuale come mondo parallelo che non fa male, che è passatempo e divertimento. Perché qui nel reale, invece, si muore per davvero; qui si esagera per davvero ogni volta che si vive qualcosa solo per la telecamera, corpi esibiti, facce modificate fino a che diventano come sistema dominante vuole: altrimenti i like non arrivano. Vite di celluloide si diceva un tempo, quando era il cinema a destare scetticismo. Vite digitali oggi, vite on line, vite sempre connesse: ma connesse con che?

Viene da chiedersi: dove è finito l’io? Nel profondo di una coscienza integra o a rifarsi il trucco per il prossimo selfie? L’io nel senso di nòcciolo autentico del sé sembra svanire, sbiadire, offuscato dalla supremazia dell’ego. Perché se l’io vive nella profondità ed emerge – come scriveva Leopardi nell’Infinito – grazie a una siepe che precludendo lo sguardo, apre prospettive d’immenso, l’ego al contrario si nutre degli specchi e degli sguardi altrui. Una volta c’erano le piazze, gli spettacoli, i teatri e i cinema… (anche se un conto è recitare una parte, calarsi in un ruolo e ben altro conto è esibire se stessi); oggi non ce n’è più quasi bisogno: con un cellulare in mano si diventa attori e registi di noi stessi. E il copione lo scrive chi ha il telefono in mano e fa meno paura degli imprevisti della vita vera.

Non è una retrograda filippica contro la modernità: ben vengano le tecnologie quando ci aprono orizzonti, quando ci agevolano la vita, quando ce la salvano, quando potenziano le nostre capacità, spalancano raggi di azione e fanno stare meglio il mondo (o almeno una sua parte). Ma se invece – e in questo caso lo hanno fatto – possono distruggerla perché sanno offuscare raziocinio e coscienza fino ad inebetire allora è il caso di intervenire. Il mezzo è neutro – si diceva – dipende dall’uso che se ne fa: ebbene, nel caso in questione, l’uso è stato scellerato, capace di un’azione esecranda.

E intanto i dati confermano che il sapere va naufragando, i libri restano oggetti riservati a pochi, i giornali di carta – dove gli approfondimenti sono ampi e non si limitano a qualche riga con un titolo urlato delle googolate – vacillano, i musei si riempiono alla ricerca di una visione da album di figurine per poter dire “ce l’ho” e non “mi manca”. E spiace questa litania babbiona di manchevolezze, che non è un inno al passato ma alla ricchezza di senso perduta ed è drammatico che questa tendenza si confermi e rafforzi.

E mentre anche sulle nostre strade – pure sulla A28 è capitato – le auto dei ragazzi si sfidano a folle gara, la domanda che resta è che fare se il sistema valoriale e di trasmissione non solo della cultura ma del significato stesso dello stare al mondo e del valore prezioso della vita di fronte a simili fatti dimostra tutto il suo fallimento? Ma se c’è un fallimento c’è chi ha sbagliato, chi non ha compreso, chi ha sottovalutato. Comunque sia dalla parte degli imputati ci stanno gli adulti, rei di avere pure dato un pessimo esempio: chini sugli schermi, a riprenderli da bambini, a monitorarli da adolescenti, a soddisfare queste e altre nostre curiosità, telefono-dipendenti pure noi. Anche se è, e resta, vero che quei ragazzi non sono affatto scusabili. E il guaio – dicono gli esperti chiamati come di routine a commentare il caso – sta proprio qui: che li abbiamo sempre scusati troppo.

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