L'Editoriale
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Per un grado in più o in meno

Pensavamo forse che non ci riguardassero più di tanto i ripetuti allarmi degli scienziati sui cambiamenti climatici: ma che direbbe oggi un catanese, dopo l’uragano della scorsa settimana? Il pianeta è surriscaldato, ha la febbre. E non c'è tachipirina per Madre Terra.

Per un grado in più o in meno

Pensavamo forse che non ci riguardassero più di tanto i ripetuti allarmi degli scienziati sui cambiamenti climatici: non siamo lapponi che vivono ai bordi dei ghiacciai che si sciolgono e nemmeno popolazioni raminghe nel deserto sahariano sempre più infuocato. Pensavamo - fermo restando un ideale impegno a migliorare la salute dell’ambiente - che la nostra geografia ci permettesse sonni abbastanza tranquilli. Ma che direbbe oggi un catanese, dopo l’uragano della scorsa settimana o un sardo dopo gli incendi estivi e tutti coloro che, dall’Italia al Canada, hanno visto il termometro salire fino ai 50° nel caldo record dell’estate 2021? Ecco allora che, all’improvviso non le previsioni degli scienziati ma le cronache dei tg – anche di casa – ci dicono e mostrano che il problema non è domani, il problema è già qui.

Pare un problema piccolo se ci limitiamo a fissare lo sguardo sul numero che lo rappresenta, quantificato da quel +1,5 gradi, che indica la soglia ottimale entro la quale contenere il surriscaldamento del pianeta individuata dagli accordi di Parigi del 2015. Un obiettivo-soglia che non si è mai trasformato in rigoroso impegno: per questo, secondo gli esperti, quella soglia è oggi di fatto già utopica. Siamo già oltre, tanto che si cerca di contenere l’innalzamento sotto i 2°.

Anche Patricia Espinosa, segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), ha manifestato tutto il suo scetticismo: a sei anni dagli accordi di Parigi mancano le dichiarazioni di impegno di quasi la metà degli Stati firmatari: “Così le emissioni saliranno ancora” ha dichiarato in una intervista al Corriere della Sera. Una conferma di quello che Greta Tumberg - protagonista delle manifestazioni dei giovani per il Clima a Milano un mese fa – con una efficace espressione ha liquidato come il “bla, bla, bla” dei grandi. I dati, purtroppo, le danno ragione e dovrebbero indurci a fare sul serio.

Ora è pur vero che l’Unione europea si sta impegnando come mai prima su un New deal green e che grande è lo sforzo degli Usa di Biden in tal senso, ma è altrettanto vero che questo non basterà: “Al 31 luglio – ha dichiarato la Espinosa – 113 Paesi avevano presentato i loro piani nazionali per la riduzione delle emissioni. Manca ancora il 40% dei paesi dell’accordo di Parigi. Inoltre, in base ai piani ricevuti, lo scenario non cambia: anzi, se così restano le cose le emissioni saliranno nel 2030 fino al 16%”. Con quali conseguenze per chi sarà non osiamo immaginare: eppure dovremmo.

Perché le nazioni siano così restie ad impegnarsi nella riduzione di emissioni di gas serra lo ha spiegato molto bene il neo premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi nel suo intervento alla Camera dei Deputati, mettendo in relazione quel contatore delle economie che è il Pil con le fonti energetiche: "Il Pil dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche – ha spiegato - e la missione dei governi sembra essere quella di aumentarlo il più possibile. Questo obiettivo è però in profondo contrasto con l'arresto del riscaldamento climatico”. Un concetto che il climatologo Luca Mercalli ha lanciato più volte, raccolto nel volume “Non c’è più tempo” nel quale illustra i vari allarmi che, da prima della conferenza per l’ambiente nota come Rio 1992, suoi pari hanno inutilmente lanciato al mondo scientifico ed economico, con l’unico risultato di trovarsi etichettati come catastrofisti.

La crescita economica ha infatti grande bisogno di energia e l’energia più usata è ancora quella che viene dal carbone e altri combustibili fossili. Sarà per questa ragione che alla Cop 26 (l’incontro sul clima che si tiene a Glasgow in Inghilterra fino al 12 novembre), hanno dato forfait i grandi paesi industriali (e inquinanti) come Cina, Russia e Brasile?

La questione è estremamente complessa: non è facile convertire parte delle nazioni alle rinnovabili senza intaccare l’equilibrio e le economie esistenti: vale per i grandi consumatori di energia (i paesi più industrializzati) come per i produttori di petrolio (il Medioriente) o di carbone l’(Australia), che fondano la loro ricchezza solo sul mercato di quelle risorse. Lo sforzo è enorme e va necessariamente condiviso: per questo sul piatto della Cop26 ci sono da una parte gli impegni di transizione ecologica e dall’altra gli impegni umanitari per sostenere le aree deboli del pianeta.

Quel grado e mezzo chiede davvero uno sforzo tanto gigante quanto urgente: 1,5° sembra poca cosa ma così non è. Ciascuno può sperimentarlo su di sé: passare da 36,5° a 37,6° fa la differenza, ad esempio ci costringe a casa, non ci fa entrare al lavoro né al cinema. Se poi, come per il pianeta, si tratta di un aumento di 2° allora tutto si aggrava: significa che il pianeta ha la febbre a 38.5°. E – purtroppo per noi, per i nostri posteri e per le specie che rischiano l’estinzione - non c’è tachipirina per Madre Terra.

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