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Paratriathlon, Territo dall’abisso alla conquista dell’argento tricolore

 L’atleta della Trivium di Spilimbergo presieduta da Rossi è già vice campione italiano a pochi mesi dagli allenamenti in questa specialità: «Katia Aere mi ha illuminato»

Paratriathlon, Territo dall’abisso alla conquista dell’argento tricolore

Sedici anni nell’abisso più profondo, dove regna il buio pesto. Poi la nuova ascesa che gli ha fatto rivedere la luce della vita. Per la vita. Scendere e risalire, d’altra parte, è nel suo dna. Diplomato all’istituto nautico come perito per i trasporti marittimi, Ivan Territo è diventato istruttore subacqueo iniziando così il suo impiego nei centri di immersione subacquea. Da Palermo si è trasferito all’Isola d’Elba, quindi in Egitto: arrivato nel 2000 a Sharm El Sheikh, quattro anni dopo ha conosciuto il suo primo crocevia che - concluso un iter ospedaliero da odissea - l’ha privato dell’uso delle gambe. Finché è subentrata la sua testardaggine che l’ha fatto andare oltre, conducendolo a Spilimbergo. Lì, dove risiede, è arrivata l’illuminazione che l’ha condotto - eccolo il secondo crocevia - all’argento tricolore del paratriathlon. «Quel giorno Obiettivo3 (Il progetto ideato e fondato da Alex Zanardi di cui ora Ivan fa parte, ndr) aveva organizzato un campus: gli avevo scritto, volevo prendere parte all’evento». Nella cittadina in provincia "ho incontrato Katia". Che di cognome fa Aere, la fresca campionessa della medaglia di bronzo a Tokyo nella prova su strada handbike: "Mi ha illuminato, è la mia parte femminile: siamo i GD (gemelli diversi, ndr). La sua tenacia è contagiosa: se vuoi raggiungere un obiettivo non ti puoi fermare davanti agli ostacoli, non devi permettere a nessuno di farlo. Averla conosciuta mi ha fatto crescere in modo esponenziale" dice il 43enne palermitano che sabato scorso, all’ultima tappa tricolore del circuito paratriathlon IPS, a San Mauro a Mare in Emilia Romagna, ha ottenuto l’argento laureandosi così vice campione d’Italia, solo dietro di un’inezia - 49 punti contro 50 - al big azzurro Giovanni Achenza.
Ivan può solo migliorare, i margini sono notevoli. E da poco, infatti, che si è imbattuto in questa disciplina: «Ho disputato la prima gara di duathlon il 18 aprile, dopo il secondo lockdown, a San Benedetto del Tronto; mentre l’esordio nel triathlon è avvenuto a Ostia il 23 maggio». In pochi mesi, l’atleta tesserato con la polisportiva Trivium di Spilimbergo ha fatto passi da gigante: «Ringrazio molto Giuseppe Rossi (presidente della società sportiva e marito di Katia, ndr) che mi supporta logisticamente ed economicamente, e lo staff della Trivium che mi accompagna e mi sostiene durante gli allenamenti e le gare. E Buccoliero e Achenza che attraverso la Federazione Triathlon (Fitri, ndr) - grazie anche al dt Mattia cambi e del tecnico Luca Zenti - mi ha fornito la carrozzina olimpica».
Allenato da Costanza Giannini, anche lei triatleta, laureata in scienze motorie, che lo segue da fine maggio dopo la prova di Ostia, Ivan si allena duramente in tutte e… quattro le specialità: "Sì esatto, generalmente si crede siano tre, invece no: le transizioni tra un cambio e l’altro sono fondamentali. Passare da sdraiato sull’handbike alla carrozzina nel minor tempo possibile richiede quell’allenamento obbligatorio per migliorarsi. Ora che sono in periodo di gare mi preparo, alternandole, su due discipline al giorno. Questi risultati sono possibili anche grazie a Obiettivo3 che mi ha dato la possibilità di seguire il programma di mental coaching di La Pelle Azzurra".
Il suo calendario s’infittisce: "Il 19 settembre sarò al via della staffetta di Obiettivo3 all’Ironman di Cervia". Le idee chiare, sogno compreso: «Si sa ma non si dice (sorride, ndr)». L’indizio, con tutti gli scongiuri, porta dritto al …2024.
DAL BUIO ALLA LUCE E pensare che, a proposito di date da ricordare, il 13 gennaio 2004 è e rimarrà impresso nella storia della sua vita. Quel giorno era sceso davvero negli abissi per poi risalire e iniziare l’odissea: "Dovevo fare da supervisore per un’immersione che avrebbe dovuto portare Eugenie, ragazzo russo di 24 anni, mio coetaneo, e il suo istruttore subacqueo, a vedere uno dei luoghi sott’acqua più suggestivi: gli archi di Thomas Reef nello stretto di Tiran a Sharm El Sheikh. Giunti a 60 metri di profondità, Eugenie decise di scendere ancora fino ad arrivare ai 96. Mi ero subito accorto che qualcosa non andava: da lui, infatti, non salivano più le bolle. Dissi al suo istruttore di andare a vedere cosa stava accadendo, ma a un certo mi accorsi che anche lui era rimasto senza aria nella bombola: più scendi in profondità e più ne consumi. A quel punto dovevo decidere: o salire in superficie e chiedere i soccorsi, o cercare di salvarli io. Optai per questa seconda soluzione. Arrivato ai 96 metri dov’erano entrambi, condivisi con loro l’aria della mia bombola che però servì solo a risalire fino ai 60 metri prima di esaurirsi. "O ci salvavamo o morivamo tutti - mi ero detto -:  con i rimasugli rimasti di aria gonfiai la muta stagna come un palloncino per velocizzare le operazioni di ascesa, cosa che non si può fare: in genere la salita richiede circa 10 metri al minuto, ma non avevamo alternative, era una questione di pura sopravvivenza".
«Arrivati in superficie chiamai la barca d’appoggio e mi sistemai sulla piattaforma situata a poppa per cercare di rianimare Eugenie somministrandogli ossigeno e praticandogli la rianimazione cardiopolmonare. Ma non ci fu nulla da fare: appena uscito dall’acqua, il ragazzo sprizzava sangue da tutti i pori e morì tra le mie braccia. Da quel preciso istante mi resi conto che, dà un momento all’altro, si sarebbero spenti i contatti con il mondo anche a me. Ma cercai di mantenere la calma e mi somministrai ossigeno. Come avevo previsto, però, dopo 10 minuti gambe e braccia non rispondevano più". Iniziò l’odissea: "Prima mi portarono in camera iperbarica, poi in terapia intensiva a Palermo per una ventina di giorni, quindi a Ravenna dove lavorava il medico iperbarico più bravo d’Europa. L’iter proseguì all’Unità spinale di Milano". Dopo 9 mesi, stanco di gironzolare tra un ospedale l’altro, Ivan è tornato in Egitto in sedia a rotelle: "Non ho mai sentito odio verso l’acqua e le immersioni, tant’è che ai medici chiesi subito se potevo tornare là sotto. Comprai così uno scooter subacqueo per bypassare l’immobilità delle gambe».
Dall’Egitto il trasferimento al Sudan: «L’obiettivo era riuscire a vivere per e con il mare, ma non andò in porto. Così io e la mia ex compagna tornammo in Sicilia e poi a Milano dove fa l’istruttrice di yoga e pilates".
Si arriva al 2019, la storia d’amore finisce, ma anche il periodo buio di Ivan: «A "Che tempo che fa" Zanardi parlò del progetto Obiettivo3, m’incuriosì e scrissi agli organizzatori. La frase che Alex pronunciò - "A rimanere fermi non accade nulla" - è stata ispiratrice».
Il resto è storia attuale: racconta dell’Ivan tornato quello di un tempo, con quell’ironia da "mai prendersi troppo sul serio": «Per 16 anni ho dovuto combattere contro i demoni che mi hanno ingabbiato. Poi è arrivato lo sport a restituirmi la mia identità: prendo in giro me stesso e lo faccio con gli altri: non c’è cosa più bella. Ognuno di noi può rinchiudersi nelle gabbie mentali ma se ne può pure liberare. E ai genitori dico di non rinchiudere i loro figli - con disabilità e non - nelle gabbie d’amore, protettive, per paura di farli scontrare con la realtà, bensì di fargli praticare lo sport, in autonomia: ne va del loro futuro».
Ivan ne è la prova vivente.

Fonte: Redazione Online
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