L'Editoriale
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Tra il mistero e i moduli

Il fine vita divide. Una legge, approvata ieri, non risolve punti chiave quale nutrizione e idratazione, obiezione di coscienza, parere medico e volontà del singolo. Così una parte del Paese esulta, l'altra non si sente rappresentata dal testo approvato

Parole chiave: Legge (14), Salute (16), Politica (30)
Tra il mistero e i moduli

La legge sul fine vita si scontra, per chi crede, con due pilastri. Il primo che la vita è un dono e come tale non si decide né del suo inizio né della sua fine. Il secondo è che il dono della vita non prevede restituzione. La morte è uno stato transitorio. La vita, invece, è eterna. Anche per questo stridere tra concetti e definizioni - vita eterna e fine vita -, quando le leggi entrano nei meandri di certe scelte, è difficile sintonizzarsi. Mistero e protocolli non collimano.
Accade per la legge sul fine vita. Da mesi il mondo cattolico spiega - anche Il Popolo ha dedicato più speciali- i dubbi a riguardo. Il rischio più grande è la deriva verso l’eutanasia. Parola mai citata, ma il concetto della dolce morte fa da sfondo.
È innegabile che parte della popolazione la attende come chi, nel buio dell’ultimo passo, trova conforto nel sapere come accadrà. E vuole deciderlo prima, sottoscriverlo. In una firma la panacea ad incognite e paure. Desiderio tanto comprensibile quanto rischioso.
Rispetto al disegno di legge, restano non condivise dal mondo cattolico alcune questioni. Primo: che alimentazione e nutrizione siano considerate cura e, in quanto tali, rifiutabili (il cardinal Bassetti, presidente della Cei, ha dichiarato che rifiutare terapie sproporzionate rispetto alle condizioni del paziente non significa rinunciare ai gesti essenziali del nutrire e idratare). Secondo: che la dichiarazione anticipata espressa dal paziente sia vincolante per il medico, ridotto a mero esecutore (il giuramento di Ippocrate messo a tacere dal volere del singolo). Terzo: che a medici e strutture non sia lasciata quell’obiezione di coscienza che l’aborto prevede.
Detto ciò, il dubbio che mina alla base le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) è che si fondano sul presupposto che noi sappiamo tutto di noi. Presunzione pericolosa innanzitutto per noi stessi. Per noi che cambiamo con le esperienze che facciamo, le vicissitudini che ci toccano.
La vita è un viaggio pieno di imprevisti. Alcuni piovono come regali insperati, danno gioie inaspettate che non rifiutiamo. Altri come inciampi, ci fanno zoppicare a lungo; poi il passo riprende, forse più lento ma capace di sorprese e sorrisi. Altri come ostacoli insormontabili, arrestano quanto cominciato, obbligano a un’altra via, difficile e lieta insieme. Altri infine rendono impossibile il proseguire in autonomia, impongono un aiuto, la condivisione dei giorni. E, talvolta, questo spezza solitudini.
Oltre alle questioni non da poco, legate al credere o meno, piede zoppo dei Dat - che su tutti pesa - è la decisione a monte. Come reagiremo quando ci capiterà questo o quello? Ci costruiamo vivendo. E, vivendo, cambiamo in corpo e spirito. Quante persone, superato il buio più nero, hanno dichiarato di aver desiderato la fine. E di aver ringraziato il cielo per non averlo fatto.
La vita ci forgia. Ce lo insegnano coloro, come gli anziani o gli ammalati, che vivono una condizione di fragilità. Persone che imparano a rinnovare ogni giorno la speranza nel domani, anche quando si fa liturgia di soliti gesti, anche quando la vita sociale viene meno. Basta un’attesa a dar senso alle ore: un sorriso, una visita, il racconto di altrui giornate. Sono loro che ci mostrano la capacità di adattamento. Testimoniano che la vita perde velocità ed efficienza, ma resta vita.
Decidere di qualcosa prima che ci capiti è un azzardo. E dovendo pensare all’ultimo respiro, è beato chi può dolcemente affidarsi al mistero e non a un protocollo di timbri e procedure.

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