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Viaggio nei libri/2 Nemesi di Philip Roth

Dopo La peste di Camus il viaggio letterario tra epidemie e contagi ci porta negli Stati Uniti nel '44. nel mondo infuria la guerra; in un quartiere periferico di NY la polio miete giovani vittime. Da dove è partito il contagio? Chi è il colpevole?

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Viaggio nei libri/2 Nemesi di Philip Roth

La seconda tappa di questo viaggio attraverso i libri che parlano di epidemie e contagi porta a Newark, quartiere di New York. E’ l’estate del 1944: il mondo è in guerra e anche tanti uomini e ragazzi americani sono al fronte. Non Bucky Cantor, protagonista di Nemesi di Philip Roth, pluripremiato autore statunitense (Newark 19 marzo 1933, New York 22 maggio 2018).
Il ventenne Cantor è stato riformato a causa della sua fortissima miopia e lavora come animatore in un campo giochi per i ragazzini.
La spensieratezza dell’estate viene minata da alcuni casi di polio che si sviluppano "in un quartiere povero italiano". La cosa non si sa subito.
Solo un mese dopo, quando i casi salgono a quaranta, l’autorità sanitaria allerta i genitori e diffonde norme igieniche cui attenersi. Non si era mossa prima, poiché era ancora viva la memoria dell’epidemia che aveva colpito il Nordest degli Usa nel 1916, portando 27mila casi e seimila morti; 363 solo nel quartiere dove si svolge la storia. Non si doveva dunque creare il panico.
Ogni malattia è inaccettabile, ma la polio di più, dato che colpiva i ragazzi con conseguenze atroci, "peggiorata dal fatto che non esistesse alcuna medicina in grado di curare la malattia, né alcun vaccino capace di immunizzare da essa" e perché "poteva colpire chiunque, senza alcuna ragione apparente". Anche un presidente ne aveva portato i vistosi segni, Franklin Delano Roosevelt: un promemoria per ogni americano.
La paura era quindi latente e la tensione saliva di giorno in giorno insieme ai colpiti, aggravata da una serie di fattori: la certezza delle pesanti conseguenze, l’inesistenza di una cura, il non conoscere la fonte del contagio: gatti randagi? Cani inselvatichiti? Zanzare estive? Piccioni?
Uno il punto fermo e terribile: "La malattia era estremamente contagiosa e poteva essere trasmessa ai sani attraverso la mera prossimità fisica con chi ne era già infetto. Per tale ragione il numero dei casi in città continuò stabilmente ad aumentare - e con esso la paura della comunità".
I genitori cominciano a proibire ai figli una serie di cose: andare nella piscina pubblica, giocare a baseball, usare i bagni pubblici, condividere la bibita con un compagno, toccare cibo senza essersi lavati per bene le mani.
Come suona familiare adesso anche a noi tutto questo. Quella che era solo una storia calata altrove, distante per geografia, tempi e storia, si è fatta adesso - pur nelle evidenti differenze - eco di paure e reazioni condivise.
Uno strano episodio accaduto al campo giochi viene ad aggravare una situazione già allarmata, mentre i benestanti abbandonavano la città rovente e portavano la famiglia altrove: è l’inizio della catastrofe.
"Un pomeriggio ai primi di luglio arrivarono due auto piene di italiani" provenienti da uno slum industriale della zona. Tralasciando il modo terribile, ma istruttivo, in cui vengono descritti - specchio di come apparissero a quel tempo gli italiani in America - per la trama conta che quei ragazzi venissero dalla zona con il maggior numero di casi di polio. E, come sono spesso descritti i poveri, erano pure sporchi, violenti e vendicativi: andavano infatti al parco con il chiaro intento di attaccare la polio alla parte bene della città, a quei ragazzi che trascorrevano nell’agio e tra i giochi la loro estate. E per farlo prendono a sputi una parte del marciapiede che porta al campo.
L’animatore Cantor, pur con i suoi occhialoni da riformato, sa prendere in mano la situazione: li fronteggia e li mette in fuga, diventando agli occhi dei suoi allievi un eroe pari ai soldati al fronte. E questo ha per lui, che soffre per non essere potuto partire con i suoi compagni, il valore inestimabile di sentirsi chiamato a difendere qualcuno.
La soddisfazione però dura poco: due giorni dopo due ragazzini si ammalano; poi altri undici e dopo altri ancora. Cominciano i morti. La gente si convinse - quasi una fake ante litteram - che gli italiani erano gli untori.
Cantor è dilaniato da quei lutti: va a trovare tutte le famiglie dei ragazzini deceduti, continua a tenere aperto il campo per offrire una distrazione ai sani che temono di essere i prossimi della lista.
L’allarme è in tutti, anche nella ragazza di cui è innamorato, che per questo gli trova un posto di animatore fuori città, in una splendida località turistica accanto a un lago e lo sprona a raggiungerla. Dopo una forte indecisione tra quello che sente il suo dovere, ovvero non lasciare i ragazzi soli in quel marasma, e il normale desiderio di un ragazzo di trascorrere l’estate a fianco dell’amata, Cantor opta per andarsene.
Non sarà che un altro inizio: qualche giorno dopo anche al campo sul lago arriva la polio. Neppure la gioia di stare con l’amata può qualcosa contro l’incubo che si ripete e la mostruosità inaccettabile di quelle giovani morti e di quelle vite condannate al polmone d’acciaio o alle stampelle.
Cantor stesso ne condividerà la sorte.
Senza addentrarci oltre nella trama - che risuona di ospedali senza più posti letto e regala sorprese che qui si tacciono - il libro offre una serie di spunti interessanti: sul tempo che passa prima di far scattare l’allarme, sulle reazioni prima placide e poi allarmatissime delle persone, sull’incertezza legata alla malattia nota ma praticamente senza cura. E, soprattutto, di come i personaggi principali si muovano, con la loro fragilità costellata di atti ora eroici ora meschini, dimostrando che ciascuno è diverso di fronte alla tragedia.
Per qualcuno quella non è che "la tirannia della contingenza" perché "a volte si è fortunati e a volte non lo si è. Ogni biografia è guidata dal caso". Chi accetta la sorte vive meglio e, pur segnato dalla polio, si pacifica nel cuore e nell’anima. Ma c’è chi non accetta quelle morti bambine e se la prende con Dio. Chi, trovandosi storpiato a vita, si autopunisce rifuggendo al mondo, come un sopravvissuto che si nega alla vita. E infine c’è chi si sente responsabile di tutto - il paziente zero di oggi - e fa di sé il capro espiatorio della vicenda. E proprio qui sta la nemesi: quella giustizia compensativa che, per ricomporre gli equilibri del mondo, interviene punendo chi è andato oltre. Anche fuggendo al proprio dovere.
Simonetta Venturin

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