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A Pordenonelegge il 19 alle 21: Marianna Corona e il suo primo libro "Fiorire tra le rocce"

In dialogo con il padre, lo scrittore e scultore Mauro Corona, e Marianna Maiorino a largo san Giorgio

A Pordenonelegge il 19 alle 21: Marianna Corona e il suo primo libro "Fiorire tra le rocce"

Si definisce figlia della montagna: ne ha assorbito l’asprezza nel carattere, una chiusa scontrosità che è pure l’altro versante della timidezza. Eppure, come recita il titolo del libro che ha appena scritto e che presenta a Pordenonelegge domenica 19 settembre alle 20, Marianna Corona, 42 anni, ha imparato a "Fiorire tra le rocce" (403 pagine, Giunti editore). Una scuola dura, appresa non solo sui banchi di scuola ma in una delle prove più difficili che la vita può dare: un cancro al colon a 38 anni. E anche per lei, dinamica figlia del noto Mauro Corona, come il padre appassionata di scalate e montagna, un lavoro al Parco delle Dolomiti Friulane, stacanovista della scrivania come delle imprese atletiche ecco che tutto cambia, si ferma. La roccia di cui si crede fatta comincia a sgretolarsi e lei si vede, incredula, diventare friabile. Trovandosi a far parlare la sua vulnerabilità. Raccontiamo con lei la sua storia.

Perché un libro dopo la malattia: per liberarsi, per rinascere, per condividere?
Probabilmente è nato prima della malattia, nel senso che è il risultato di un lungo percorso. Sono nata in un luogo che non lascia posto alle emozioni, che inculca il dovere di essere forti proprio come in natura, dove è il più forte ad avere la meglio. La malattia è arrivata inaspettata proprio quando mi sentivo più in forma. Per questo la prima cosa che ho desiderato è stata tornare quella di prima: ma la Marianna di prima non c’era più.
Come ci si solleva da una situazione così?
Ho avuto forti crisi di ansia, in bilico tra un corpo che non sentivo più mio tanto da farmi ribrezzo e una mente analitica che mi spingeva a tornare sui miei passi. Momenti duri dai quali si esce imparando a chiedere aiuto a professionisti della mente, come per il male fisico ci si rivolge a medici esperti. Ho rimesso tutto e tutta me in discussione, ho creato il vuoto, tagliato rami secchi, sono tornata essenziale e concreta.
La scrittura l’ha aiutata? Quando ha cominciato?
Nel mezzo della crisi e del cambiamento è arrivata la Giunti (casa editrice ndr.) con una proposta. Io, già impegnata nello scavo di me, ho detto di sì. Ho scritto praticamente per un anno ma le prime stesure non mi convincevano, trattenevo e non mi riconoscevo, sentivo quelle parole poco autentiche. E poi con un padre scrittore mi facevo mille domande, si accendevano dubbi.
Poi è arrivata la pandemia. Mi sono chiusa in casa e ho sperimentato una cosa del tutto nuova: sono diventata abitudinaria, le giornate scandite da ritmi uguali, fatte di poco e niente ma, riguardandole adesso, ricche. Stessi orari, stesse cose, dallo yoga alle passeggiatine nel cortile della scuola: lì in quella quotidianità essenziale, in quella nuova quiete la mia vena creativa ha cominciato a sgorgare senza freno. Ho messo da parte quello che avevo scritto prima e mi sono trovata a raccontare qualcosa di molto diverso.
Il libro è poi fluito da sé?
Sì, ma non in modo indolore: è stato come rivivere ogni giorno di quel periodo, la sofferenza e il male anche fisico. Avevo i crampi in pancia e le lacrime agli occhi, ero stanca, spossata. Il benessere è arrivato dopo, a impresa compiuta.
Scrivere viene naturale in famiglia…
Veramente mi ero messa molto in discussione, mi pareva di non saperlo fare, di avere una scrittura puerile. Ma ogni volta che mi arenavo, mi arrivava un input esterno. Ringrazierò sempre Omar Pedrini che proprio durante una delle giornate dove stavo per cestinare il progetto mi scrisse un messaggio che poi ho tenuto come un mantra e che mi ripeteva spesso: "tu dovresti scrivere". Coincidenze che mi hanno spronato a continuare. E anche adesso che il libro è finito la scrittura è rimasta con me: una terapia d’urto, uno sfogo, un benessere che viene dall’atto fisico di scrivere e unire in un unico gesto mente, corpo e respiro.
Scrivere con un padre scrittore famoso: è stato difficile?
È stato uno dei miei crucci: non per lui, perché lui ci ha sempre spronato a scrivere. Non solo, ci ha sempre fatto percepire l’arte in sé, dalla scrittura ai disegni, come ossigeno e parte vitale di un’esistenza. Da piccoli ci immaginavamo storie che raccontavamo con disegni. Ho ancora interi album disegnati tipo fumetto. Scrivere mi viene naturale. Ma un conto è farlo per sé, un altro è pensare a un pubblico, esporsi e confrontarsi. Pensavo avrebbero detto: "Adesso si mettono tutti a scrivere i Corona".
Papà Mauro come l’ha presa?
Pur sapendo che stavo scrivendo non mi ha mai chiesto nulla. Ha visto le bozze quando erano finite. Ero io quella in forte tensione, perché c’è anche lui tra le pagine. C’è più del resto della famiglia: lui è un personaggio di cui si sa già molto e ho potuto raccontarlo visto da me. Non ho invece svelato troppo mia madre, mio fratello, le mie sorelle per tutelare le loro vite riservate.
Quando mio padre ha letto il libro è stato contento. Non mi aspettavo che mi dicesse: "Ti ho conosciuto più in queste pagine che nella vita". Però è vero, per via del mio carattere introspettivo e anche perché in famiglia non eravamo abituati a raccontarci le emozioni. Ad esempio i miei genitori non mi dicevano mai quando stavano male e io facevo lo stesso. Pensavo che il dolore non andasse raccontato. Ci mancava il linguaggio emotivo. Mi ha colpita quando mi ha detto che leggere il libro lo ha commosso e lo ha fatto stare bene.
Mauro Corona nell’introduzione scrive che un po’ si è inorgoglito e un po’ è arrossito...
Vero, lo descrivo con lo sguardo di noi bambini. Quando avevamo paura che una pattuglia a un posto di blocco lo arrestasse per il suo modo di vestire un po’ stravagante. O quando siamo andati a comperare la mia prima Panda... Il suo imbarazzo viene dall’aver reso noti episodi di famiglia e aspetti caratteriali suoi meno noti. Scrivo anche della dipendenza dall’alcol, cosa di cui ora ho imparato a parlare apertamente con lui. Senza pretese di cambiarlo, ma il parlarne fa bene ad entrambi e il non parlarne è peggio. Dopo la mia malattia abbiamo costruito in famiglia un linguaggio emotivo che si sta ancora formando.
Malattia che dice di voler raccontare in modo delicato ma che pure descrive in pagine intense sul dolore...
Parlare del tumore era complicato, del tumore al colon ancora di più. È legato a una parte del corpo di cui si ride, ci si vergogna e quando se ne parla spesso si usano battute. Invece se ci fermassimo a pensare a cosa fa ogni giorno per noi il corpo, alla sua utilità e capacità di trasformare ad esempio il cibo in energia e di espellere invece quello che non serve, ecco credo che guarderemmo il corpo in modo diverso. A me è successo così. Mi sono resa conto delle sue funzioni naturali e vitali. Anche la mente deve imparare ad espellere, cosa che per me è sempre stata problematica.
Ovvero?
Ho sempre avuto problemi a dire le cose. Assecondavo spesso gli altri, venivo loro incontro, pronta a mediare sempre. Mi ritrovavo in situazioni agli antipodi del mio sentire e mortificavo la mia indole. L’arte di buttar fuori è stata una conquista: adesso se mi trattengo sento i crampi. Il libro è il frutto di questo percorso difficile che mi ha portato a studiarmi e conoscermi.
Un liberarsi?
Avevo il timore che il libro non fosse compreso. A qualcuno sembrerà una bieca azione di marketing, invece viene da questo bisogno di buttar fuori l’esperienza della malattia e di raccontarmi come non avevo mai fatto. La scrittura è stata per me terapeutica. Il progetto del libro in un anno distruttivo, come quello della pandemia, mi ha permesso di creare.
Insiste sull’ascolto del corpo, invece siamo tutti molto mentali.
Mi sono arrivati riscontri positivi da persone che vengono da percorsi oncologici e che hanno letto il libro. Il pensiero di essere utile mi rende orgogliosa.
Dopo l’operazione nel 2017 io stessa mi ero completamente distanziata dal mio corpo, non lo riconoscevo e lo vedevo raccapricciante. Ero viva, ma mi vedevo morta. C’era un distacco completo tra mente e corpo. E allora, per quanto difficile, ho cominciato a fare il contrario, a dare precedenza e ascolto a quel corpo in difficoltà. Per la prima volta in vita mia forse l’ho ascoltato sul serio. Ho ripreso piano piano a praticare yoga, che avevo fino a quel momento percepito solo come performance sportiva. Ho imparato a rispettare il mio corpo, bisogni, esigenze e ad assecondarlo: piccole camminate brevi, momenti di riposo e di recupero. E sono ripartita.
Quanto l’ha aiutata lo yoga?
Mi ha ricollegata al corpo in modo dolce. Crediamo sia la mente che comanda, ma anche la mente è parte del corpo. Quando faccio yoga adopero, non alleno: è una danza armoniosa tra corpo e mente, il respiro li mette in contatto tramite il movimento. Lascio fluire senza soffocare. Se penso che spesso tratteniamo sbadigli o starnuti come fossero capricci, quando invece sono semplicemente fatti naturali.
Lo ha detto e scritto: "Ero viva ma mi consideravo morta". Cosa intende?
Intendo dire che il tumore mi ha lasciato una storia da raccontare. Per me la malattia è stata quello che è: espressione di dolore. Mi ha anche fatta diventare essenziale e capire quello che per me è superfluo o annoverato come perdita di tempo. Ora quello che non voglio fare non lo faccio, non assecondo più per accondiscendenza, per mediare.
Vivere un’esperienza così forte e difficile mi ha riconsegnato autenticità di pensiero e parola che mi porta a dire apertamente come la vedo e ho scoperto che questo, che prima non osavo fare, regala rapporti più veri perché permette a chi mi sta vicino di comprendermi meglio. Era indispensabile per me arrivare a ritrovare me stessa dietro la maschera emotiva che avevo costruito fino alla malattia. Spero che il libro sia utile in questo: che sproni a cercarsi e a viversi come si è.
Ha scritto: "Una famiglia cambia col tumore". Come è cambiata la sua?
Abbiamo imparato questo: a dirci come stiamo. Quanto è importante raccontarsi l’ho appreso dalle visite mediche: il chirurgo e poi l’oncologa e la gastroenterologa mi chiedevano come stavo in modo serio e reale, io parlavo e loro scrivevano, mettevano le mie parole nero su bianco.
È vero che il nuovo dialogo con papà Mauro è avvenuto tramite sms?
La strada trovata per rompere il ghiaccio: dal vivo le nostre personalità sono molto timide e molto simili da questo punto di vista. Gli sms ci hanno permesso di entrare in confidenza in un modo che, viso a viso, sarebbe più difficile. A voce se mi emoziono mi inceppo, mi si blocca il pensiero, balbetto. La scrittura invece è un canale preferenziale dove trasportiamo la nostra emotività.
Lei come sta adesso?
Sono reduce di colonscopia e Pet. Tutto a posto. La colonscopia è un esame che può salvare la vita. Il tumore al colon si scopre così. Non nasce già tumore, nasce polipo benigno che può degenerare. Preso in tempo si risolve, altrimenti può trasformarsi in un "big killer".
Il libro è per metà storia e per metà yoga. Quanto è importante per lei?
Lo insegno, organizzo eventi legati all’ascolto: per me è fondamentale. Lo praticavo da prima, avevo iniziato a causa di un mal di schiena. Ero arrivata a praticare due ore al giorno per anni tutti i giorni. Eppure non mi faceva stare bene quanto adesso. Ho compreso finalmente l’essenza vitale di questa disciplina. E ci sono passata per l’esperienza diretta.

La malattia è uno spartiacque? Prima c’erano le scalate e dopo le posizioni yoga?

Il corpo appena dopo l’operazione non mi permetteva di fare quello che facevo prima, all’inizio questo era avvilente.
Una ferita all’addome rende doloroso anche aprire un cassetto, piegarsi sulla lavastoviglie... Poi ho capito di aver travisato per anni lo spirito dello yoga, l’avevo inteso come una performance sportiva. Ho ripreso dalle posizioni semplici, anzi dallo stare ferma all’aperto e respirare. Lì nella natura del mio paese ho cominciato a cogliere un nuovo sentire attraverso l’osservazione: foglie nuove, fiori sbocciare, insetti a volte microscopici. Ho imparato a guardare il mondo fuori e ad ascoltare il corpo dentro.
Nella seconda parte del libro propone un asana al giorno: che cos’è?
Una posizione yoga. Una al giorno, trenta in tutto.
Ciascuna ha un disegno di papà Mauro, il nome di animale e un aneddoto. In quale si riconosce di più?
Il pipistrello: un po’ perché mi è sempre piaciuto, un po’ perché lo sento affine nel suo essere controcorrente. È un mammifero ma vola, vive di notte e non di giorno - lo faccio anch’io specie scrivendo -, guarda il mondo da una prospettiva rovescia, appeso a testa in giù. Il pipistrello per natura intima soverchia le regole e conferma che un’esistenza lineare, allineata col mondo, non è l’unico modo in cui si può vivere e non è la sola prospettiva a cui fare riferimento.
Credevo scegliesse la volpe. Papà Mauro non la voleva chiamare Volpe?
Sì, Volpe Corona. Me lo ripeteva spesso e noi lo guardavamo dicendo "è matto". I miei fratelli dovevano essere Vento, Aria e Tempesta. Non è andata così: io porto il nome della cugina della nonna paterna.
I disegni sono molto belli. Disegna anche lei. Un’altra dote di famiglia?
L’idea è venuta a Giulia della casa editrice Giunti che ha pensato di far realizzare i disegni a mio padre per accompagnare la seconda parte. Con tatto gli avevo chiesto la prefazione. Non è facile scrivere di esperienze così difficili. Gli ho prima fatto leggere il libro e poi chiesto se se la sentiva di scrivere questa introduzione. Quando l’ho letta mi sono commossa per la delicatezza e la profondità.
I disegni sono 30 come i miei autoscatti per le posizioni di yoga. Anche mia madre Francesca ha lasciato una traccia: è sua la foto interna dove sono salita su un ceppo vicino a una casera. Un luogo magico.
Naturalmente in montagna. Mai desiderato vivere altrove?
L’ho fatto per cinque anni, a Belluno. Quando ero piccola Erto mi pareva molto malinconico: nessuno ha mai nascosto il Vajont, una ferita che non si vive solo il 9 ottobre ma che si osserva e si guarda ogni giorno.
Però nel 2017 la convalescenza ho voluto farla a Erto. E ora ci sto bene. È il mio paese e il mio elemento: un luogo bellissimo per la natura, un po’ più complicato per la vita di tutti i giorni. Mia nonna era senza patente e spesso rinunciava anche a un paio di scarpe nuove per non pesare sugli altri. Questo ha stimolato in me una potente necessità di autonomia. Subito la patente e un lavoro. Ora sento anche molta responsabilità verso il forte gesto di protesta dei nostri vecchi che hanno battagliato per rimanere qui a Erto dopo il Vajont.
Lei scrive: "Possiamo godere la vita anche se siamo convinti di essere fragili". È il suo messaggio ai lettori?
Ho sperimentato che ripartire dalla fragilità permette di vivere appieno le gioie della vita. Mi spiego: ci sono stati anni in cui facevo mille cose, ma se mi giro indietro scopro che non mi hanno lasciato nulla. Questi ultimi, invece, tra malattia e lockdown sono anni scavati sottopelle e che non se ne andranno più, vissuti appieno: me li ricordo nei dettagli e questo mi arricchisce. Li ho gustati e vissuti.
Presenta il libro insieme a Mauro Corona a Pordenonelegge è una star. Cosa farete insieme?
Ancora non lo so. Sono un po’ preoccupata: sentirò Alberto Garlini per alleggerirmi i dubbi. So che l’incontro sarà anche online: spero che il messaggio del "fiorire" arrivi a molte persone.

Simonetta Venturin

A Pordenonelegge il 19 alle 21: Marianna Corona e il suo primo libro "Fiorire tra le rocce"
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